La differenza ONTOLOGICA tra capitale e risparmio

Post su FB di Andrea Bartalini.
Con il capitalismo non si stipulano patti di connivenza, non si media, non si “governa”, mentre il socialismo, questa chimera per popoli occidentali ormai corrotti e annichiliti da quarant’anni di consumismo, o è rivoluzionario, oppure semplicemente non è, non esiste, può essere al massimo una sua rappresentazione retorica, o farsesca, ma nulla più di questo.
Anche la Costituzione repubblicana del 48, a ben vedere, salvo letture successive intrise di revisionismo borghese, era rivoluzionaria in ogni sua parte, poiché conteneva in sé quegli elementi indispensabili a continuare (con altri mezzi) la lotta di classe generante le due guerre mondiali, e questo perché, in un momento in cui la lotta partigiana (dei comunisti, gli unici partigiani che io conosca), non avendo l’appoggio dell’Unione sovietica, essendo l’Italia devastata dalle bombe e dalla miseria, non avendo ancora l’URSS sviluppato l’arma nucleare, non essendo effettivamente in grado di sostenere un confronto armato con le forze occupanti, ebbe come unica soluzione l’aggiramento del problema, il cedere per sbilanciare il nemico e poi colpirlo quando si fossero ripristinati gli equilibri di forza.
I rapporti di forza rendevano insostenibile la rinuncia ostinata alla mediazione, da ciò il famoso “contrordine compagni!” che la necessità, e non le nostre più alte aspirazioni, resero ineludibile.
Ma la rivoluzione, tornando al punto, possono farla soltanto i poveri diavoli, i proletari, la gente che ha segnata la schiena dalla frusta del padrone, o soltanto le proprie catene da perdere, e cioè, amici miei, i villani, i bifolchi, chi vive del suo lavoro là dove il termine LAVORO non indica una professione, non è sinonimo d’impiego.
La vera rivoluzione la fanno i bifolchi, non gli intellettuali, non i teorici, non i borghesi, non gli influncer, non gli oratori mediaticamente spendibili.
Per quelli lì, in un sistema post democratico com’è quello attuale, c’è soltanto la prospettiva di mettersi al tavolo dei burocrati, dei proconsoli, dei faccendieri, dove principalmente si apprezzano il buon vino, le ostriche, il caviale, i tagliolini con l’astice e le aragoste.
Che poi sia necessario alla rivoluzione che anche l’operaio, il bracciante, il poveraccio, e cioè il bifolco, abbiano un minimo d’istruzione, che siano capaci di pensare (è intellettuale chi esercita le facoltà dell’intelletto e della ragione), e che siano capaci di argomentare in pubblico, ad esempio, ma soprattutto si pongano il dovere di studiare per capire meglio le dinamiche che sovrintendono al loro interesse e al modo di perseguirlo, quello è certamente un altro discorso;
resta il fatto che coloro che non si contino fra i miserabili, o dei miserabili non conservino le cicatrici, insomma, quelli che non hanno mai assaggiato l’umiliazione e la fatica del lavoro salariato, o la precarietà del lavoro autonomo, non possono, pur volendo, essere utili alla causa
Puoi essere borghese e mosso da una grande forza morale, ed ecco che ti vedremo appoggiare la causa della giustizia sociale finché questa non ti costerà il patrimonio, la sicurezza, il privilegio, allora te ne andrai per non sporcarti le mani e la coscienza, ti nasconderai da qualche parte, all’estero, o cederai al ricatto.
Puoi essere borghese moralmente debole, avido e fasullo, un arrivista, e allora ti venderai al miglior offerente per poi sederti al tavolo di chi comanda, lì ti metterai d’accordo e manderai a fanculo tutti gli altri, al pari del caro Onofrio Del Grillo, il fu Marchese di Comencini.
Nei miei sogni bagnati immagino una prassi rivoluzionaria che possa fare a meno, escludendoli, di grandi e piccoli borghesi, mezze tacche, gente con l’auto nuova in garage, gente che non può fare a meno di una doccia al giorno, o di un abbonamento a Netflix, gente che non sa tirare il collo a una gallina, o che non sa ammazzare un coniglio con decisa bastonata sul collo perché una tale azione la farebbe impallidire.
La rivoluzione non è un pranzo di gala, non è roba da borghesi, né grandi né piccini, ed uno dei motivi per cui oggi la rivoluzione sarebbe improponibile (per adesso) non è perché abbiamo interiorizzato quarant’anni di propaganda neoliberista, ma perché anche un metalmeccanico s’è imborghesito nei modi di condurre la propria vita, col benessere crescente, e piano piano, dai modi si è passati all’Essere, perché come ho sempre sostenuto in passato e continuo a farlo, è la forma (il modo di vivere, il contesto) a produrre il pensiero, a plasmare lo spirito, non il contrario.
Questa società ha prodotto froci (senza allusione alcuna ai gusti sessuali di ognuno) che per toccare una pompa della benzina si mettono i guanti, e per entrare al supermercato si disinfettano le mani con la benzina.
Una società siffatta è disarmata, la sua parte migliore può soltanto discutere in eterno sulla definizione di parole già storicamente definite, come appunto la parola “socialismo”, le sue varianti, il suo portato, oppure dell’appropriatezza del termine anti-fascismo, una premessa, non un proposito, al ripristino della costituzione repubblicana del 48, ma anche di qualsiasi istanza veramente socialista.
Una simile concezione della realtà potrà sembrarvi pessimistica, quasi tragica, e perciò nichilista, ma il nichilismo è invero un’altra cosa, consta nell’avere coscienza del problema, sì, e cioè nel riconoscerne l’esistenza, ma al contempo considerlo ineluttabile, e questo perché il nichilista è pressoché incapace di percepirsi “soggetto storico”, quindi non sa trascendere se stesso in codesta metafisica;
il nichilista persegue soltanto il proprio godimento immediato, orgiastico, fine a se stesso, in attesa della Fine, considerata ineluttabile e pedissequamente rimossa, un po’ come nel film “In viaggio verso sera”, di cui consiglio la visione.
Il nichilista è capace si di perseguire uno scopo, ma soltanto se questo consta nel cambiare effettivamente qualcosa nell’arco della sua infinitesimale esistenza, e soltanto ad un costo inferiore di ciò che individualmente può guadagnarci.
Il nichilista vive in un eterno presente, vive per sé stesso e non crede a nient’altro che nella propria nuda vita, perciò persegue il proprio solo godimento (materiale) e si pone in antitesi sia all’idealismo borghese (che è illusorio, ma comunque ci fa vivere meglio), sia a quel senso eroico ch’era tipico degli antichi, o al realismo stoico e volitivo dei poveri, degli ultimi, di tutti coloro che conoscono il dolore, la fatica, le privazioni, ma al contempo hanno figli a cui dover garantire un futuro (i proletari).
La disintegrazione della famiglia ed il fatto che non si fanno più figli è anch’esso un motivo, secondo me, del trionfo assoluto del nichilismo, alla cui azione tossica si può rimediare soltanto facendo ricorso all’idealismo borghese (che è un gioco da salotto, però, lontano anni luce dalla cruda realtà e dall’azione rivoluzionaria).
Un esercito di “senza figli” è anch’esso un esercito disarmato, fuggirà nelle retrovie al primo colpo di cannone (o si inietterà un farmaco per continuare a lavorare, o firmerà un’autocertificazione insulsa pur di continuare in santa pace il suo giro senza prendere una multa).
Nichilista, a mio avviso, è colui che non ha altro da difendere se non la propria nuda vita (non ha Dio come gli antichi, non ha senso storico come i moderni, non ha eredi come il proletariato).